La “pietas” e la sindrome di down

Negli ultimi anni ho frequentato spesso una persona importante, a capo di una grande organizzazione.

Non abbiamo nulla in comune. E’ una specie di cow-boy. Ha gusti e modi che sono lontani dai miei. Ma ho dovuto frequentarlo comunque.

E frequentandolo mi ha colpito una cosa. Ovunque vada, qualunque viaggio faccia, porta sempre con sé la figlia affetta da una grave sindrome di down. E non solo: ogni volta che c’è una occasione sociale, una festa, una cena, non manca mai di farsi accompagnare dalla figlia. Verso la quale ha attenzioni delicatissime.

L’ho osservato, chiedendomi come mi sarei comportato io al suo posto, se avrei avuto la stessa forza, lo stesso coraggio, la stessa pazienza. Soprattutto mi sono chiesto se avrei saputo vincere i sensi di colpa che attanagliano tutti i genitori che si trovano nella stessa situazione. Che molto spesso li portano a nascondersi e a nascondere i propri figli e la loro malattia.

Non ho saputo rispondere e mi sono tenuto l’ammirazione per quest’uomo rozzo e delicato.

Qualche tempo fa ho dovuto prendere una decisione importante per me e per le persone che lavorano con me. Istintivamente ne parlai con lui. Capitò per caso. Non era deciso, ma mi sentii quasi incoraggiato da lui a farlo. Razionalmente era un errore, avrebbe potuto usare quelle confidenze contro di me, avrebbe potuto parlarne con altri, far supporre per vere cose che erano al tempo solo pensieri.

Mi ripagò con una serie di consigli sbagliati. Sbagliati per me, ovviamente. Per lui giustissimi, da vero cow-boy.

Soprattutto mi ripagò con una totale e assoluta confidenza. A distanza di tempo ho avuto la prova che tenne per sé quello che gli dissi. E che nel parlarmi non pensò al suo ruolo professionale, ma a quello che lui avrebbe fatto al mio posto. E che io naturalmente non feci. Non sono un cow-boy. Ma nemmeno un cow-boy è in grado di nascondere la pietas.

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