L’agenda Draghi dopo Draghi – Intervento del Governatore Visco

Inflazione e tassi di interesse a lungo termine

Intervento di Ignazio Visco
Governatore della Banca d’Italia

Analysis: Forum Istituzionale
Milano, giovedì 16 giugno 2022

Ringrazio il professor Pinardi per il gradito invito che mi dà la possibilità di discutere
con voi il netto cambiamento del quadro congiunturale a seguito dall’aggressione
dell’Ucraina da parte della Russia, soprattutto con riferimento a quanto sta accadendo
sul fronte dell’inflazione, e il modo in cui la Banca centrale europea (BCE) sta rispondendo
a questi mutamenti.

Gli andamenti dell’inflazione nell’area dell’euro e negli Stati Uniti

Da diversi mesi l’inflazione è in deciso rialzo a livello globale in seguito alla crescita dei
prezzi dell’energia sui mercati internazionali, specialmente quelli del petrolio e del gas.
Le modalità con cui questi rincari hanno avuto luogo e il loro peso relativo rispetto ad
altri fattori presentano, tuttavia, forti eterogeneità tra paesi, in particolare tra gli Stati
Uniti e l’area dell’euro.

I prezzi delle due qualità principali di petrolio – ossia il WTI, che è scambiato sul mercato
statunitense, e il Brent, venduto in quello europeo – hanno registrato aumenti analoghi:
rispetto alla vigilia dello scoppio della pandemia sono entrambi raddoppiati e si trovano
oggi su valori attorno ai 120 dollari al barile. La dinamica del gas è stata in generale più
sostenuta, ma negli Stati Uniti le sue quotazioni sono passate da poco meno di 10 dollari
per megawattora a circa 30 nella media della prima metà di giugno, mentre in Europa
sono salite da poco più di 10 euro, a oltre 80. Inoltre, mentre nella prima economia il
rialzo è stato graduale, nel nostro continente i prezzi hanno toccato, durante le fasi più
acute delle tensioni geopolitiche, valori inimmaginabili: fino a 180 euro in dicembre,
addirittura quasi 230 in marzo. Si tratta di sviluppi molto rilevanti dato che il prezzo del
gas svolge un ruolo chiave non solo per il riscaldamento degli ambienti e per altri usi
domestici, ad esempio in cucina, ma anche per l’energia elettrica.

Un’altra importante differenza tra le due regioni ha riguardato la risposta data nel 2020-21
dalle politiche economiche alla crisi pandemica. Anche se in tutti i paesi quelle di bilancio
sono intervenute in modo massiccio per potenziare il sistema sanitario e sostenere le
famiglie e le imprese, negli Stati Uniti le misure attuate sono state particolarmente ingenti:
nel biennio il rapporto tra debito e PIL è aumentato di 25 punti percentuali, al 130 per 2
cento, contro un incremento di 15 punti nella media dei paesi dell’area dell’euro, al 100
per cento (nonostante, peraltro, un calo più profondo del PIL nominale nel 2020 e una
sua più lenta ripresa nel 2021). Questo eccezionale supporto dato negli Stati Uniti si è
tradotto in una inconsueta dinamica del reddito disponibile delle famiglie che, nel 2020, ha
registrato il più forte incremento dalla metà degli anni Ottanta, al 6,2 per cento, a fronte
di una caduta del PIL del 3,4 per cento; nell’area dell’euro, invece, il reddito disponibile
delle famiglie è diminuito, dello 0,6 per cento, anche se in misura minore del PIL (-6,4 per
cento). Il surriscaldamento dell’economia statunitense, in una fase in cui l’offerta globale
non aveva ancora recuperato a causa del susseguirsi delle ondate pandemiche, ha inoltre
creato strozzature nelle catene di approvvigionamento internazionali di beni intermedi,
con conseguenze negative sulla produzione di molti paesi.

Il diverso andamento della domanda aggregata tra le due regioni si è riflesso in nette
differenze nel mercato del lavoro. Negli Stati Uniti tutti i principali indicatori (average
hourly earnings, employment cost index, il wage growth tracker calcolato dalla Riserva
federale di Atlanta) segnalano infatti una crescita dei salari nettamente al di sopra del
5 per cento. Nell’area dell’euro la crescita delle retribuzioni contrattuali si colloca invece
attorno al 2 per cento, anche se non mancano richieste per aumenti più marcati; alla
moderata dinamica salariale contribuiscono l’ancora ampia capacità inutilizzata nell’area,
dove le ore lavorate non hanno ancora recuperato i livelli precedenti lo scoppio della
pandemia, e il basso livello delle vacancies, che indica l’assenza di un eccesso di domanda
di lavoro.

A fronte di questi andamenti, i prezzi al consumo hanno progressivamente accelerato.
Sia negli Stati Uniti sia nell’area dell’euro l’inflazione ha raggiunto un picco in maggio,
rispettivamente all’8,6 e all’8,1 per cento (nella seconda sulla base di una stima ancora
preliminare). L’andamento dell’indice al netto dell’energia e dei beni alimentari è stato
però diverso: negli Stati Uniti l’inflazione di fondo era pari al 6 per cento in maggio (dopo
un picco del 6,5 in marzo), nell’area dell’euro si collocava al di sotto del 4 per cento.

Gli errori di previsione sull’inflazione

Sulla base di queste considerazioni, l’Eurosistema stima che l’inflazione, tenendo conto
anche delle valutazioni preliminari sulla crescita dei prezzi in maggio, sarà pari a circa
il 7 per cento nella media di quest’anno. Già nel 2023 l’inflazione scenderebbe su livelli
considerevolmente più bassi, a circa il 3,5 per cento, per tornare attorno al 2 per cento
nel 2024.

Queste proiezioni sono soggette ad ampi margini di incertezza, come suggerisce
anche l’esperienza più recente. Negli ultimi due trimestri, infatti, gli errori di previsione
commessi dalla BCE e dagli esperti dell’Eurosistema sono stati molto più elevati che in
passato. Le nostre analisi indicano che gli effetti diretti degli errori di previsione relativi
ai prezzi dell’energia – che sono le principali variabili esogene, i cui andamenti vengono
derivati dalle quotazioni dei contratti futures – spiegano oltre il 60 per cento dell’errore
complessivo commesso sull’inflazione; la quota sale all’80 per cento quando si tiene
conto anche degli effetti indiretti (ad esempio, su settori quali i trasporti).

Questi risultati confermano la validità dei modelli impiegati, anche se richiamano la nostra
attenzione sulla qualità delle previsioni utilizzate come input che riguardano tra gli altri, oltre ai prezzi dei beni energetici, anche l’andamento del commercio mondiale. Sicuramente vi è stata una generale sottovalutazione dei riflessi che l’eccesso di domanda negli Stati Uniti, in particolare nel settore dei beni di consumo durevoli, avrebbe avuto sul resto del mondo mediante i prezzi dell’energia e, assieme agli effetti delle misure di contrasto alla pandemia, attraverso le strozzature osservate nelle catene di offerta. Più rilevanti, tuttavia, sono state le sottovalutazioni delle tensioni geopolitiche, con le forti riduzioni delle forniture di gas dalla Russia già dall’inizio dello scorso anno, attribuite prima all’inverno rigido in quel paese (probabilmente erroneamente) e poi alle pressioni del governo russo per il gasdotto Nord Stream II. Ma il fattore più importante è stato, ovviamente, lo scoppio della guerra: mentre le quotazioni dei futures avevano continuato a scontare prezzi in discesa di petrolio e gas sino alla fine dello scorso anno, il conflitto ha lasciato i prezzi – non solo quelli correnti, ma anche quelli attesi – su valori molto elevati. Le ripercussioni dei rincari dell’energia sull’inflazione, che erano quindi da valutare come temporanee per le attese diffuse di effetti base che sarebbero presto divenuti negativi, sono invece divenute più persistenti.

I rischi di disancoraggio delle aspettative d’inflazione e di una spirale prezzi-salari

Il peggioramento delle ragioni di scambio e la perdita di potere d’acquisto causati dai rincari
dell’energia tenderanno a contenere la domanda finale nell’area dell’euro, attenuando le
pressioni sui prezzi. Tuttavia sia il rischio che le aspettative d’inflazione di lungo termine
aumentino su valori non coerenti con la definizione di stabilità monetaria della BCE sia
quello che si avvii di una rincorsa tra prezzi e salari vanno tenuti sotto attenta osservazione.

Oggi le aspettative d’inflazione sugli orizzonti più distanti non si discostano significativamente dal 2 per cento. Le ultime previsioni delle maggiori istituzioni internazionali e degli analisti privati concordano con quelle dell’Eurosistema, indicando che la crescita dei prezzi nell’area si manterrà elevata quest’anno per poi flettere in modo deciso nel 2023 e tornare successivamente attorno al 2 per cento; anche le quotazioni delle attività finanziarie indicizzate ai prezzi al consumo confermano l’ancoraggio delle aspettative a lungo termine.

Siamo consci del fatto che una valutazione del pericolo di disallineamento delle aspettative
dall’obiettivo basata esclusivamente sul loro livello attuale sarebbe pericolosa. Dato che la
teoria economica e l’esperienza storica mostrano che il disancoraggio potrebbe procedere
in modo repentino e non lineare, è cruciale soppesare attentamente il rischio che le
aspettative d’inflazione a lungo temine possano improvvisamente aumentare.

Le aspettative devono quindi essere valutate non solo in termini del loro tendenziale
allineamento alla definizione di stabilità dei prezzi ma anche sulla base della loro reattività
agli shock e della loro dispersione. Queste misure forniscono infatti indicazioni su quanto
le attese siano solidamente ancorate. Con riferimento alla reattività, le aspettative desunte
sia dai sondaggi sia dalle attività finanziarie indicizzate ai prezzi al consumo continuano
a mostrare una sensitività relativamente bassa alle sorprese macroeconomiche, incluse
quelle sull’inflazione. Anche la dispersione delle aspettative sulla crescita dei prezzi resta
nel complesso moderata: i sondaggi condotti dalla BCE (Survey of Monetary Analysts) indicano che una quota elevata e crescente di intervistati si attende che nel lungo termine
l’inflazione nell’area dell’euro sarà in linea con l’obiettivo del 2 per cento, mentre deviazioni
da tale livello, comprese quelle di entità contenuta, sono previste solo da una minoranza
dei partecipanti.

Come ho detto, il possibile avvio nell’area dell’euro di una spirale tra prezzi e salari è un
secondo rischio, non indipendente dal primo, che va attentamente monitorato. Anche se
la dinamica delle retribuzioni nell’area è rimasta sinora moderata, sarebbe incauto limitarsi
a osservare gli andamenti più recenti senza interrogarsi su quello che potrebbe accadere
in futuro. A questo riguardo diverse ragioni portano a ritenere che l’avvio di una spirale
prezzi-salari sia meno probabile che in passato. Vale peraltro la pena chiarire che aumenti
dei salari richiesti e concessi sulla base delle variazioni della produttività o comunque
dove i margini di profitto lo consentano, non creano problemi sul fronte dell’inflazione;
incrementi delle retribuzioni che, invece, mirano a recuperare “meccanicamente”, in modo
automatico, gli aumenti dei prezzi si rivelano vani, perché innescano, a loro volta, ulteriori
rialzi dell’inflazione.

Innanzitutto, la politica monetaria è oggi trasparente nei sui obiettivi e credibile, come
mostra la tenuta delle aspettative d’inflazione. In secondo luogo, la domanda aggregata
nell’area dell’euro rimane relativamente debole e una ripresa significativa nei prossimi
mesi appare improbabile. Inoltre, le caratteristiche strutturali del mercato del lavoro,
specialmente le differenze nei meccanismi di indicizzazione dei salari, rendono meno
verosimili fenomeni di avvitamento tra prezzi e retribuzioni. Infine, la stessa moneta
comune riduce la probabilità che eventuali accelerazioni dei prezzi portino a forti
deprezzamenti del tasso di cambio, che a loro volta alimenterebbero ulteriori aumenti
delle retribuzioni e dell’inflazione.

La risposta della politica monetaria

La normalizzazione della politica monetaria della BCE è in atto dallo scorso dicembre
quando, a fronte dei progressi compiuti nella ripresa economica e nella convergenza
delle aspettative verso l’obiettivo d’inflazione, il Consiglio direttivo ha annunciato l’avvio
della riduzione degli acquisti netti di attività finanziarie. Nei primi mesi di quest’anno
tale processo ha subito un’accelerazione: dopo aver terminato quelli nell’ambito del
programma per l’emergenza pandemica alla fine di marzo, e nonostante i maggiori rischi
al ribasso per la crescita posti dall’invasione russa dell’Ucraina, il progressivo aumento
dell’inflazione, corrente e attesa, ci ha portato ad anticipare all’inizio di luglio il termine
degli acquisti netti nell’ambito del programma di acquisto di attività finanziarie.

All’inizio di giugno il Consiglio ha inoltre annunciato che i tassi ufficiali – con quello
sui depositi delle banche presso l’Eurosistema su livelli eccezionalmente negativi –
saranno aumentati di 25 punti base nella riunione di luglio e che, se le prospettive di
medio termine per l’inflazione rimarranno invariate o peggioreranno ulteriormente,
in settembre potrebbe essere appropriato anche un rialzo di dimensioni maggiori. Un
percorso graduale ma sostenuto di ulteriori aumenti dei tassi di riferimento proseguirà
dopo tale data, ma il suo ritmo dipenderà dai nuovi dati economici e finanziari e da come
questi muteranno la nostra valutazione sulle prospettive per i prezzi nel medio termine.
Al riguardo, un andamento che continuiamo a monitorare è quello delle attese sulla futura
evoluzione dei tassi ufficiali: negli ultimi giorni la curva dei tassi reali a breve termine ha
mostrato un forte spostamento verso l’alto, un segnale che indica una diffusa percezione
di un orientamento particolarmente hawkish da parte della BCE; tale percezione non è,
a mio avviso, appropriata, data l’attenzione che continueremo a porre sull’evoluzione del
quadro congiunturale, attualmente ancora molto incerto.

L’aumento dei tassi di interesse a breve termine ha accentuato il rialzo, già in corso
da alcuni mesi, di quelli a lungo termine, che svolgono un ruolo chiave per l’attività
economica di imprese e famiglie. Rispetto alla prima decade di dicembre, alla vigilia
della svolta di politica monetaria da parte sia della Riserva federale sia della BCE, i tassi
di interesse a 10 anni sono saliti di 185 punti base negli Stati Uniti, di 200 in Germania
e di 230 nella media dell’area dell’euro. L’entità relativa di questi rialzi appare difficile
da riconciliare con un quadro in cui, nell’area, l’inflazione di fondo è di oltre 2 punti più
bassa che negli Stati Uniti e la crescita dei salari di oltre 3 punti inferiore. Si tratta quindi
di uno sviluppo che dovremo guardare con molta attenzione nei prossimi mesi per
assicurare che non vi sia un inasprimento eccessivo delle condizioni finanziarie, incluso
un aumento sproporzionato dei tassi a lungo termine, anche considerando, se necessario,
una ricalibrazione del percorso di aumento dei tassi ufficiali, che non è predeterminato
ma dipende dall’evoluzione del quadro economico e finanziario.

La scelta del ritmo di normalizzazione della politica monetaria deve bilanciare due
rischi. Nel caso in cui esso fosse troppo graduale, l’inflazione potrebbe radicarsi nelle
aspettative e nei processi di fissazione dei salari, rischiando di compromettere la
credibilità della banca centrale e rendendo necessaria una correzione della stance con
ricadute negative più forti sull’attività economica e sull’occupazione. D’altro canto, se il
ritmo di normalizzazione della politica monetaria fosse troppo rapido o il suo annuncio
male interpretato, i mercati potrebbero reagire in modo eccessivo e l’inasprimento delle
condizioni di finanziamento potrebbe risultare più forte del necessario, con rischi per la
stabilità finanziaria, l’attività economica e, in ultima analisi, la dinamica dei prezzi, che
solo da poco è prevista attestarsi al 2 per cento nel medio termine.

Se da un lato non vi possono più essere preclusioni all’abbandono della politica di tassi
ufficiali negativi, dall’altro ritengo cruciale che, come annunciato, la normalizzazione
della politica monetaria continui in modo graduale e con molta attenzione all’incerta
evoluzione delle prospettive economiche e delle condizioni finanziarie. Solo in questo
modo potremo infatti preservare e consolidare il patrimonio di credibilità che abbiamo
costruito nel tempo.

Il rischio di frammentazione dei mercati nell’area dell’euro

Oltre al rischio di generalizzate tensioni finanziarie, l’area dell’euro, come unione
monetaria, è esposta a quello, altrettanto pericoloso, di una frammentazione dei mercati
dei capitali lungo i confini nazionali, non giustificata dai fondamentali economici.
Si tratta di una possibilità, già osservata in passato, che è amplificata dall’incompletezza
dell’Unione europea. È un rischio che non riguarda solo i paesi che ne sono colpiti ma che,
date le interconnessioni economiche e finanziarie tra gli Stati membri, può riverberarsi
velocemente in tutta l’area dell’euro.

La frammentazione comporta problemi molto seri da un punto di vista “operativo”. Essa
infatti impedisce la corretta e omogenea trasmissione degli impulsi monetari in tutti
i paesi e, per questa via, ostacola la possibilità di perseguire la stabilità dei prezzi nel
complesso dell’area.

Già lo scorso dicembre il Consiglio direttivo aveva dichiarato che la flessibilità nell’utilizzo
degli strumenti sarebbe rimasta un elemento chiave della politica monetaria, per
contrastare qualsiasi minaccia al meccanismo di trasmissione. La Presidente Lagarde
aveva chiarito che ciò includeva la possibilità di utilizzare strumenti esistenti o anche
introdurne di nuovi, volti a prevenire i rischi di frammentazione dei mercati all’interno
dell’area dell’euro. La pandemia ha in particolare confermato che, in condizioni di tensione,
strumenti flessibili nel disegno e nella conduzione degli acquisti di attività finanziarie
hanno contrastato con successo le disfunzioni nella trasmissione della politica monetaria,
rendendo più efficaci gli sforzi volti alla stabilizzazione dell’economia e dell’inflazione.

Negli ultimi mesi abbiamo assistito a un progressivo materializzarsi del rischio di
frammentazione dei mercati. Il marcato aumento degli spread sui titoli di Stato registrato
in Italia e in Grecia ma anche, in misura più contenuta, negli altri paesi dell’area dell’euro
è un segnale che desta preoccupazioni. Si tratta di tensioni che non sembrano essere
spiegate dall’andamento del quadro macroeconomico. Per l’Italia, in particolare, nostre
analisi indicano che un livello del differenziale tra i rendimenti dei titoli decennali di Italia
e Germania inferiore a 150 punti base sarebbe giustificato dai fondamentali e comunque
certamente non lo sarebbero livelli superiori ai 200 punti. Nelle ultime settimane il
movimento al rialzo degli spread si è intensificato, accompagnandosi a un aumento
progressivo della volatilità dei mercati.

È a fronte di questi sviluppi, per molti versi ingiustificati, che va letta la decisione
presa proprio ieri dal Consiglio direttivo della BCE di attivare la flessibilità nell’ambito
del Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP) e di chiedere ai comitati tecnici
di accelerare il lavoro per la creazione di un nuovo strumento per contrastare la
frammentazione.

Il primo strumento – che sfrutta la flessibilità concessa dai reinvestimenti dello stock di
attività detenute nell’ambito del programma PEPP – fa già parte dell’armamentario a
disposizione della politica monetaria. Il suo utilizzo in questo frangente è pienamente
giustificato. Molte delle tensioni che l’economia sta attraversando traggono infatti
origine dalle conseguenze della crisi pandemica: dal disallineamento tra domanda e
offerta, che genera problemi di approvvigionamento e alimenta l’inflazione, alla forte
crescita dei debiti pubblici nazionali, alla stessa necessità di normalizzare condizioni
monetarie divenute estremamente accomodanti per affrontare la fase più acuta della crisi
e stimolare la ripresa. La guerra in Ucraina ha inoltre determinato una riduzione del livello
di crescita del prodotto rispetto a quello atteso sulla base della spinta del programma
NGEU, concepito proprio come risposta europea agli effetti della crisi pandemica.

Il secondo strumento, in via di definizione, servirà ad aumentare e a porre su basi durature
e solide la capacità della BCE di assicurare un impatto della politica monetaria quanto più
possibile uniforme in tutta l’area dell’euro.

Voglio chiarire due aspetti riguardo a questa decisione e questi strumenti. Primo: hanno
finalità puramente di politica monetaria, volte a facilitare il perseguimento dell’obiettivo
di stabilità dei prezzi; non servono altri scopi, meno che mai quello di finanziare politiche
fiscali imprudenti e insostenibili. Secondo: vi è piena complementarità tra graduale
normalizzazione della politica monetaria e azione di contrasto alla frammentazione. La
prima non può procedere in maniera ordinata senza la seconda; è precisamente per tutelare il giusto orientamento di politica monetaria che dobbiamo evitare malfunzionamenti o interruzioni nel suo meccanismo di trasmissione.

* * *

Sono convinto che la determinazione della BCE contribuirà anche a riportare condizioni
più ordinate sui mercati. Questo aiuterà gli investitori a valutare con maggior attenzione
e accuratezza le reali condizioni della nostra economia. In prospettiva, i segnali di
miglioramento sono evidenti. Il rapporto fra il debito e il PIL è in una fase di discesa e,
secondo le più recenti valutazioni della Commissione europea, continuerà a diminuire
sia quest’anno sia il prossimo; grazie alla elevata vita media residua (vicina a otto anni),
il tasso di interesse medio sui titoli di Stato resterà su valori più bassi del tasso di crescita
nominale del PIL, mentre la spesa per interessi si manterrà su livelli moderati anche nei
prossimi anni. La posizione netta sull’estero è positiva; i produttori italiani competono
con successo sui mercati di sbocco; l’indebitamento delle famiglie è il più basso tra i
principali paesi dell’Unione europea e quello delle imprese è al di sotto della media;
le condizioni del settore bancario sono migliorate in termini di ammontare di crediti
deteriorati e redditività, mentre la capitalizzazione, pur leggermente scesa rispetto allo
scorso anno, resta su valori elevati.

Oggi sta a noi mantenere e consolidare i punti di forza della nostra economia e tenere
sotto controllo i conti pubblici. In condizioni di emergenza, finanziare le spese correnti
in disavanzo può consentire di prestare attenzione alle necessità di giustizia sociale e
di protezione per chi è particolarmente danneggiato dalle crisi e dai cambiamenti. Lo
scostamento di bilancio è uno strumento di stabilizzazione macroeconomica, ma non
può diventare la norma: un disavanzo elevato e persistente non è sostenibile, si traduce
inevitabilmente in un aumento del peso del debito. La via per ottenere progressi duraturi
passa per lo sviluppo economico, per la valorizzazione del lavoro e dell’investimento.

Netti progressi potranno essere conseguiti mediante i programmi di investimento
e le riforme previsti dal Piano nazionale di Ripresa e Resilienza. Si tratta di un Piano
di dimensioni finanziarie importanti i cui obiettivi – accelerare la doppia transizione,
“verde” e digitale, potenziare l’istruzione e la ricerca, colmare i ritardi del Mezzogiorno –
non possono che essere condivisi tra le forze politiche. Il Paese è sulla strada giusta:
il successo nel completare i principali programmi di investimento, oggi tutti in fase di
avvio, e le connesse riforme, che non sono “dettate” da Bruxelles ma sono nel nostro stesso interesse, sarà essenziale per rafforzare il potenziale di crescita nonché per contrastare i rischi, anche finanziari, determinati dall’aumento dell’incertezza a livello globale.

L’Unione europea resta una risorsa fondamentale per il nostro paese. Ne è una
dimostrazione importante la solidarietà espressa durante la pandemia, anche con
decisioni concrete, dalle istituzioni europee e dai leader e dai popoli dei suoi paesi
membri. Non vi sono nemici a Bruxelles, né tantomeno a Francoforte. I timori e i pregiudizi
emersi con la duplice crisi dello scorso decennio devono essere definitivamente respinti.
Bisogna dialogare e procedere con decisione lungo il percorso tracciato insieme verso
un’economia innovativa e più sostenibile. Questo è necessario per superare le incertezze
e le difficoltà di questa così difficile congiuntura; è essenziale per far fronte alle sfide, per
molti versi drammaticamente inattese, che ci troviamo ad affrontare a livello globale.

fonte: bancaditalia.it

 

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