Caso pratico e purtroppo per nulla teorico (basta leggere Cass. 27357/2019).
Un amministratore di sostegno si appropria dei soldi dei suoi amministrati, qualcuno se ne accorge e lo denuncia, l’amministratore viene condannato sia in sede penale sia in sede civile e alla fine, con i tempi non brevissimi della giustizia, sconta la pena e restituisce il maltolto.
Nel frattempo l’Agenzia delle entrate recapita a casa del nostro manigoldo un avviso di accertamento con il quale chiede il pagamento dell’Irpef sulle somme distratte.
L’Agenzia lo deve fare perché così prevede la legge (è l’art. 14, comma 4 della l. 597/1993). Cosa che, incidentalmente, mi pare sacrosanta.
Ma se il nostro manigoldo ha scontato la sua condanna ed ha restituito il maltolto, è giusto che debba comunque pagare le tasse sulle somme distratte?
A questa domanda ha già risposto per noi la Corte di Cassazione.
Vediamo se la risposta ci piace.
La risposta della Corte è che le tasse sui proventi illeciti rimborsati debbono essere prima pagate e poi restituite, salvo il caso che la restituzione sia avvenuta nello stesso anno dell’appropriazione. Un caso che non si verifica ovviamente mai.
Perché questo balletto? La Cassazione ci ricorda che l’Irpef si deve liquidare e pagare anno per anno, in funzione dei redditi che anno per anno sono stati percepiti. Quindi per l’anno della appropriazione il nostro manigoldo deve pagare le tasse, senza se e senza ma. E siccome difficilmente avrà inserito nella sua dichiarazione dei redditi le appropriazioni, ecco che l’accertamento della Agenzia è giusto.
Ma poi la Corte ci ricorda anche che se la ricchezza che ha generato il reddito illecito è stata restituita, volontariamente o meno, allora viene meno quello che gli esperti chiamano il “possesso del reddito” che nel nostro ordinamento è il presupposto necessario perché vi sia tassazione (Cass. 25467/2013, 28519/2013, 28375/2019).
Così l’Irpef pagata dal manigoldo pentito gli deve essere restituita. Come? In due modi:
- se il manigoldo ha agito nel proprio diretto interesse e ha provveduto direttamente tanto alle restituzioni delle appropriazioni quanto al pagamento delle tasse relative, spetta a quest’ultimo dedurre l’importo restituito dal proprio reddito come fosse un onere deducibile o, se il reddito non è sufficiente a coprire l’ammontare, chiedendo il rimborso all’Agenzia (Cass. 28519/2013);
- se il manigoldo ha agito nell’interesse di una società della quale era amministratore ed è quindi la società che ha tratto vantaggio dalla condotta illecita del suo amministratore (ad esempio, in caso di sovrafatturazioni), spetta alla società restituire il maltolto e dedurre l’importo quale componente negativa di reddito o, in alternativa, chiederne il rimborso (Cass. 28519/2013 che richiama un inedito interpello della DRE lombarda conforme).
La sopravvenuta mancanza del possesso del profitto illecito in altre parole travolge il presupposto e deve perciò essere assicurato al contribuente/manigoldo/pentito il rimborso delle imposte che ha dovuto pagare, anche se non ha redditi da compensare nell’anno della restituzione.
Ma se è così, che senso ha costringere il nostro manigoldo, oramai in pace con la giustizia, prima a pagare le tasse e poi a chiedere il rimborso di quello che ha pagato, quando il risarcimento è già stato eseguito al momento dell’accertamento della Agenzia?
Voi direte “Abbiamo problemi più grossi in Italia che pensare ai diritti di chi ruba i soldi alle vecchiette“.
Avete ragione. Ma chissà perché i diritti ed i doveri da noi devono sempre camminare separati. O gli uni o gli altri finisce che camminano davanti. Quindi la risposta della Cassazione a me non mi piace.