Prescrizione fiscale o prostrazione morale?

Un po’ di tempo fa abbiamo parlato delle indagini fiscali. (Vedi articolo: Le indagini fiscali sono come gli esami: non finiscono mai).

In pratica le indagini fiscali non hanno un termine di inizio e non hanno un termine di fine, possono durare per tutto il tempo che l’Agenzia delle Entrate vuole e non è previsto l’obbligo di informare il contribuente del suo inizio e, soprattutto, della sua fine.

Un termine finale a dire il vero c’è. È il termine generale di prescrizione decorso il quale non è più possibile per il fisco pretendere nuove tasse e quindi neppure svolgere indagini.

Sono termini piuttosto lunghi, vale la pena conoscerli bene, almeno quelli delle imposte dirette e dell’IVA. Anche perché al solito non sono chiarissimi.

Cominciamo con il dire che i termini sono diversi se si riferiscono agli anni fino al 2015 (compreso) o dal 2016 (compreso).

Fin al 2015 il termine generale di prescrizione è di 4 anni a contare dall’anno successivo a quello successivo. Non è colpa mia, la legge è scritta così. E parla di anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione. Che si presenta sempre l’anno successivo all’anno d’imposta. Risultato: 4 anni dall’anno successivo a quello successivo. Potevano dire direttamente 5 anni. Ma in barba alla semplificazione fiscale, continuano ad usare la stessa, burocratica espressione dal 1973. E quando diciamo “continuano”, diciamo il Parlamento, che approva le leggi del Governo, preparate dal Ministero dell’economia, suggerite dalla Agenzia delle Entrate. Tanto per  non fare nomi e cognomi.

Facciamo adesso un esempio. L’anno 2013 è prescritto, perché il termine entro il quale l’Agenzia poteva fare indagini e chiedere nuove tasse è scaduto il 31 dicembre 2018, ovvero 4 anni contati a partire dal 2015.

L’anno 2014 invece è ancora aperto, ma solo fino al 31 dicembre di quest’anno. E così via.

Attenzione però a cosa vuole dire che un anno è ancora aperto. Vuole dire che fino al 31 dicembre di quell’anno è possibile per il fisco mandare un atto che si chiama “avviso di accertamento” o “avviso di liquidazione” con il quale vi chiede di pagare più tasse rispetto a quelle già pagate in dichiarazione. Ricevuto questo atto, da lì in avanti e fino a quando il debito non è stato estinto in qualche modo (pagamento, sentenza, condono, ecc.) non c’è più prescrizione. Il fisco vi può inseguire per il resto dei vostri giorni. Basta che ogni dieci anni vi mandi una letterina di sollecito, cosa che puntualmente fa.

Divertente? Siamo solo all’inizio.

Perché dall’anno d’imposta 2016 il termine generale di prescrizione aumenta di un anno: passa da 4 a 5 anni.

Quindi, per esempio, l’anno 2015 con la regola dei 4 anni scade nel 2020, mentre il 2016 con la regola dei 5 anni scade nel 2022.

Il 2021 sarà un annus horribilis per i contribuenti: non scade nulla.

Questa la regola generale che in realtà come vedete sono due regole generali.

Queste due regole generali soffrono di circa 20 eccezioni, cioè di situazioni nelle quali le regole dei 4/5 anni non si applicano e si applicano quindi termini di prescrizione diversi. Quasi sempre più lunghi.

Tranquilli, non ve le elenco tutte queste situazioni, ma almeno quelle più importanti è bene saperle.

Prima eccezione: nell’anno sotto scrutinio da parte del fisco non avete presentato la dichiarazione. Perché magari non avete avuto redditi (o pensavate di non avere avuto redditi tassabili) o perché avete avuto solo il CUD che il datore di lavoro ha inviato direttamente alla Agenzia.

In questo caso la regola dei 4 anni diventa 5 (fino al 2015) e quella dei 5 anni diventa 7 (dal 2016 in avanti).

Seconda eccezione: la violazione che vi contestano potrebbe avere rilevanza penale e per questo motivo l’Agenzia (o la GDF) invia la denuncia all’Autorità Giudiziaria.

Come si fa a sapere se la violazione potrebbe avere rilevanza penale? Domanda alla quale occorrerebbe dedicare un post. Quindi per il momento accontentatevi di sapere che deve trattarsi di una (ipotetica) violazione un po’ gravuccia. Non proprio gabellare, diciamo.

Ebbene, in questo caso i termini che si applicano fino all’anno 2015 (oggi sono i termini degli anni 2013, nel solo caso di omessa dichiarazione, e quelli degli anni 2014 e 2015) sono raddoppiati, a condizione però che la denuncia alla Autorità Giudiziaria sia stata inviata dal fisco entro i termini standard.

I termini che si applicano dall’anno 2016 invece restano immutati anche in caso di rilievo penale (per non farci mancare nulla, regole ancora diverse si applicano agli avvisi per violazioni penalmente rilevanti notificati prima del 31 dicembre 2015, ma ve li risparmio).

Terza eccezione: l’avviso di accertamento riguarda redditi di fonte black-list. Detta in parole più facili, redditi che derivano da investimenti collocati in paradisi fiscali.

Anche in questo caso i termini standard sono raddoppiati. Siccome però la maggior parte dei paradisi fiscali è oramai uscita dalle black list, il raddoppio vale solo per gli anni d’imposta nei quali il paese della fonte era blacklistato.

Confusi? Anche io.

Cosa ci vorrebbe a prevedere un termine corto ragionevole, diciamo di 4 anni, per tutte le violazioni e uno lungo, diciamo di 7 anni, per le violazioni più serie che ricadono in una lista ben precisa?

Così facendo, i governi potranno divertirsi a cambiare la lista, ma non a mettere mano alla durata di 4 e 7 anni, che per questo motivo andrebbe scritta nello Statuto del contribuente.

Si lascerebbe spazio alla legittima aspirazione dei Tremonti o Visco di turno di incidere sulle politiche di accertamento, senza costringere i contribuenti a fare conteggi da Pico della Mirandola per sapere quando buttare via le vecchie dichiarazioni.

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